Sappiamo che Dante faceva parte dell’ambasceria inviata a Bonifacio VIII, ma ignoriamo per quanto tempo si sia trattenuto a Roma e quali siano stati i suoi spostamenti successivi.
Quasi sicuramente si trovava ancora a Roma al momento del colpo di Stato dei primi di novembre; Leonardo Bruni riferisce che Dante, partito da Roma, a Siena era venuto a sapere che la situazione di Firenze era irreparabile, e che perciò avrebbe deciso di riunirsi con i compagni di partito che nel frattempo avevano lasciato la città e insieme a loro si sarebbe incontrato a Gargonza con i rappresentanti degli antichi Ghibellini fuorusciti. Bruni condensa in poche righe avvenimenti che si sono svolti nello spazio di tre o quattro mesi, e ciò diminuisce la credibilità del suo racconto. In particolare, riesce difficile pensare che Dante, in un frangente così delicato e pieno di pericoli per i familiari, non abbia fatto ritorno in città. Non è del tutto vero, infatti, che nel novembre egli non potesse vedere «alcun riparo»: i Neri avevano, sì, preso il controllo della città, ma la partita non era completamente chiusa. I Bianchi erano numericamente superiori, controllavano Pistoia, e i loro massimi dirigenti si trovavano ancora a Firenze. Ma soprattutto, anche se i Donateschi sembravano agire di conserva con il Valois, non era affatto detto che essi fossero in tutto e per tutto in sintonia con Bonifacio VIII. Agli inizi di dicembre questi invia di nuovo a Firenze il legato Matteo d’Acquasparta con l’incarico di favorire una conciliazione tra le parti. Per circa un mese il cardinale cerca di convincere i Neri vincitori a condividere alcune cariche pubbliche con i Bianchi e si adopera per stringere patti di pace tra famiglie nemiche. Riesce perfino a coinvolgere Cerchi e Donati, e forse avrebbe raggiunto lo scopo se un fatto di sangue – l’uccisione di un figlio di Corso di nome Simone durante il suo tentativo, riuscito, di uccidere l’odiato zio Niccolò dei Cerchi – non fosse intervenuto a togliere ogni speranza di riconciliazione. Nello stesso mese tenta anche, ma invano, di aggiustare le cose a Pistoia facendo rientrare i Neri banditi. Insomma, la situazione di Firenze rimane, se non proprio aperta, suscettibile di sviluppi non catastrofici almeno fino alla fine dell’anno o ai primi giorni del successivo. È quasi certo che tra novembre e dicembre 1301 molti Bianchi, sentendosi minacciati, abbandonarono la città, ma è difficile pensare che si fosse creato un forte flusso di fuorusciti ai quali Dante potesse aggregarsi. Di sicuro, non è in questo periodo che i Bianchi autoesiliatisi possono pensare di accordarsi con i Ghibellini.
La situazione cambia a cavallo dell’anno: i Neri mettono in moto la macchina giudiziaria. Le prime sentenze sono del 18 gennaio 1302 e, come quelle che seguiranno, condannano imputati contumaci. Dunque l’esodo delle persone più esposte deve essere cominciato da un po’ di tempo. Dante, come ex priore, era tra quelli esposti, e pertanto è probabile che lui pure possa aver lasciato la città tra la fine del 1301 e l’inizio del 1302. La campagna giudiziaria orchestrata da Cante dei Gabrielli colpisce i dirigenti «bianchi» che avevano occupato cariche pubbliche (e quindi non tocca i veri capi della Parte, come Vieri dei Cerchi, che in quanto magnati erano esclusi dalle magistrature più importanti).
Il 18 gennaio due distinte sentenze condannano, la prima, per baratteria, illeciti arricchimenti ed estorsioni, tre ex priori; la seconda, Andrea Filippi dei Gherardini, che era stato il capitano fiorentino a Pistoia e il massimo responsabile della persecuzione dei Neri di quella città (e perciò detto Cacciaguelfi). Baratteria e azioni contro i Neri pistoiesi saranno il Leitmotiv di tutte le sentenze che si succederanno fino alla metà di marzo. Il 27 gennaio, nello stesso giorno, una prima sentenza condanna un ex priore, Gherardino Diodati, per baratteria, e una seconda Palmiero degli Altoviti, Dante Alighieri, Lippo di Rinuccio Becca e Orlanduccio di Orlando, tutti ex priori (Lippo aveva fatto parte della missione che aveva scoperto gli agenti degli Spini presso la curia romana). I capi d’imputazione sono: baratteria, illeciti arricchimenti ed estorsione; avere approvato stanziamenti contro il Sommo Pontefice e contro Carlo di Valois per impedirne la venuta; aver operato per dividere Pistoia in parti e per espellere i Neri.
Gli imputati sono condannati in quanto rei confessi per non essersi presentati, in conformità alla procedura penale fiorentina che equiparava la contumacia alla confessione. La condanna prevede una multa di 5000 fiorini piccoli, da versare al Comune entro tre giorni: qualora la multa non fosse stata pagata nel tempo prescritto, si sarebbe proceduto alla confisca, devastazione e distruzione dei beni, al confino fuori dal territorio toscano per due anni, all’iscrizione infamante del nome negli statuti del popolo e all’esclusione a vita dagli uffici e dai benefici pubblici. Le sentenze che Cante dei Gabrielli emetterà per tutto il mese di febbraio (come quella contro Lapo Saltarelli del primo del mese) prevedranno tutte lo stesso schema accusatorio e, sostanzialmente, le stesse pene: da 2000 a 5000 fiorini piccoli di multa e circa due anni di confino (6000 fiorini e tre anni per Saltarelli).
L’uso politico della giustizia persegue un obiettivo evidente: epurare la classe dirigente «bianca». Si osservi che non viene comminata nessuna condanna a morte e che le pene pecuniarie non sono di grande entità. Cinquemila fiorini piccoli corrispondono all’incirca a 170 fiorini d’oro, una cifra molto elevata per le povere finanze di Dante, ma certo alla portata di quasi tutti gli altri condannati. In ogni caso, la sproporzione tra l’entità della multa e il valore dei beni che verrebbero rasi al suolo in caso di mancato pagamento è evidente: eppure, nessuno si è presentato a pagare per salvare il proprio patrimonio immobiliare. Tutti sapevano che in quel clima di legalità solo apparente ottemperare a quella sentenza non li avrebbe messi al sicuro. Del resto non sembra che i Neri siano interessati a eliminare fisicamente gli avversari, il loro scopo sembra piuttosto quello di decapitare il nucleo dirigente «bianco» costringendolo a emigrare e a restare lontano dalla città.
Nel marzo 1302, improvvisamente, l’atteggiamento degli inquirenti si fa molto più duro. Il giorno 10, Cante emette una sentenza contro quindici imputati, fra i quali Dante. Erano già stati tutti condannati a pene pecuniarie e al confino, ma adesso per loro scatta la pena di morte sul rogo, e questo perché non si erano presentati a discolparsi. Per tutti l’accusa è la stessa: baratteria e lucri illeciti. È una sentenza breve e poco argomentata, ha il sapore di una rappresaglia. Capitali saranno anche tutte le condanne che si susseguiranno nei giorni successivi. I Neri, dunque, dall’epurazione sono passati alla vendetta. A spingerli a tanta durezza deve essere stato qualcosa accaduto tra il 10 febbraio, data delle ultime condanne a pene pecuniarie e al confino, e il 10 marzo.
È più che probabile che sia avvenuto proprio in quell’arco di tempo l’incontro di Gargonza tra i fuorusciti «bianchi» e i fuorusciti ghibellini. Gargonza è un castello situato su un colle in Val di Chiana, territorio di Arezzo, appartenente alle famiglie degli Ubertini e dei Pazzi, ghibelline e fieramente ostili ai Guelfi di Firenze. Ubertini e Pazzi in quel periodo stavano per l’appunto conducendo nel Valdarno superiore una guerriglia che aveva loro consentito di recuperare alcuni castelli conquistati dai fiorentini una decina d’anni addietro. Non abbiamo testimonianza alcuna di cosa quelle persone fino a quel momento nemiche si siano dette e di quali patti abbiano stretto. Probabilmente gettarono le basi di una alleanza antifiorentina che sarà perfezionata ai primi di giugno nel Mugello. E nemmeno abbiamo la prova che Dante vi abbia partecipato: l’unico indizio in tal senso è la sua condanna a morte, forse proprio come rappresaglia per la partecipazione a quel convegno.
Pur in assenza di informazioni, è intuibile che l’incontro di Gargonza segnò una svolta radicale nella politica di Guelfi e Ghibellini, una svolta che agli occhi dei contemporanei dovette apparire un fatto inaudito. Già altre volte i Cerchieschi avevano stretto accordi con i Ghibellini (per esempio a Pistoia, in funzione antinera), ma si trattava di accordi episodici e strumentali. A Gargonza, per la prima volta, una parte dei Guelfi fiorentini si alleò con i nemici storici di Firenze, e per di più per muovere in armi contro la propria città. Agli occhi dei fiorentini ciò si configurava come un tradimento. Tanto più che l’accordo, sebbene ancora da perfezionare, diventò subito operativo, rinfocolando da aprile la guerriglia delle forze ghibelline ai danni di castelli e postazioni fiorentine del Valdarno superiore. Era inevitabile che il popolo di Firenze, nel quale il sentimento antighibellino era radicato fin dalla strage di Montaperti, si avvicinasse sempre più alla fazione dei Neri, sentita come baluardo dell’identità guelfa della loro città. La risposta dei Neri, forti del favore popolare, fu l’immediata rappresaglia giudiziaria, alla quale, poi, seguì una dura repressione. Le innumerevoli condanne a morte che si susseguirono a partire da aprile per infittirsi ulteriormente durante l’estate furono il riflesso sul piano giudiziario della guerra guerreggiata che si combatteva alla periferia del territorio fiorentino.